l concetto tradizionale di viaggio prevede di raggiungere una destinazione lontana il più rapidamente possibile, per poi soggiornarci a lungo. Ma nell’aprile 2021, ho deciso di rendere il viaggio la vera meta, da affrontare con una bicicletta leggera, comoda ed efficiente, ma anche ben equipaggiata.
Una scelta che implicitamente libera dalla sgradevole sensazione di aver portato a compimento un viaggio per il solo fatto di aver raggiungo una destinazione. Scegliere la bicicletta significa infatti partire dal presupposto che ogni chilometro percorso sarà un’esperienza degna di essere vissuta, perché non esistono due strade uguali l’una all’altra.
Significa fondersi con il paesaggio, muoversi al ritmo del terreno, vivere tutti gli elementi sulla propria pelle, far entrare la propria anima in risonanza con quello che ti circonda e sentirsi un tutt’uno con esso.
Certo, progettare un percorso di questo tipo richiede una certa dose di programmazione. È necessario un rilievo, poiché niente come la discesa permette di sperimentare il movimento, il bisogno vitale di avanzare. Ancora prima però, serve una prospettiva, il che vuol dire decidere se puntare a est o a nord. Ad aprile andare a nord significa scegliere la pioggia, meglio dunque procedere a est.
A questo punto, bisogna inserire il tutto in una tabella di marcia, definire se sarà un viaggio di sola andata ed eventualmente come si terrà il ritorno. C’è così tanto da programmare che a volte bisogna rinunciare ad ogni pianificazione, prendere un punto sulla mappa e attenervisi.
Così ho cominciato a pensare: sarà forse la Georgia la mia meta? È un percorso che mi porterà sufficientemente lontano, pur restando a portata. Subito dopo c’è l’Iran, ma è una prospettiva decisamente più improbabile.
Ora: andare a est e quindi attraversare le Alpi implica innanzitutto di andare a sud. Prima di partire non immaginavo che avrei trovato la neve lungo il percorso, a eccezione delle Alpi. Questione di mancanza di punti di riferimento e preparazione, ma fonte di future avventure.
Finalmente la partenza, primo obiettivo Dignes, casa di Alexandra David-Néel. Poi una tappa a Saou, seguita da un bivacco in mezzo ai lupi. Direzione sud, arrivo a Nizza, poi l’attraversamento della frontiera a Mentone. Raggiungo Finale Ligure con un vento contrario di 35 km/h e qui prendo una decisione importante. È il 2021, in Italia i ristoranti hanno appena riaperto, mentre in Francia sono ancora tutti chiusi.
L’Appennino, di cui in Francia non sappiamo nulla, è una formidabile catena di boschi e villaggi e, tra questi boschi, si trova il Passo del Bocco. Un passo modesto, di 956 metri, ma che conduce in un altro mondo. Da lì, un lungo tratto piano e poi il treno per Ancona. Una discesa facile, il brivido della corsa. O almeno, questo è quello che pensavo, senza aver messo in conto le scrosciate d’acqua che mi hanno sorpreso tra Parma e Faenza: desideravo fondermi con il paesaggio, invece il cielo mi è crollato letteralmente addosso.
Una breve sosta per riposare (o meglio, asciugarsi) e riparto con il vento in faccia alla scoperta di Rimini e Senigallia, di cui ricorderò sempre il ponte romano, e infine il traghetto sull’Adriatico. 7 giorni e 1000 km totali per raggiungere Ancona.
A bordo dell’Olympic Champion ho finalmente un po’ di tempo per rilassarmi, approfittando della traversata di 36 ore fino a Patrasso. Saluto Itaca lungo la strada ed eccomi in Grecia. Le poche ore di ritardo non mi dissuadono dal pedalare fino all’imbrunire, infrangendo la prima regola che mi ero imposto: non guidare troppo di notte. Ma le regole sono fatte per essere infrante, giusto? Mi godo la dolcezza della notte primaverile e supero il Canale di Corinto prima di trovarmi nell’incubo dell’ingresso ad Atene: la salita, i chilometri passati sul ciglio della strada alla mercé dei camion, i cani a guardia dei rottami che mi inseguono ripetutamente. I pericoli delle auto a confronto sono poca cosa.
Ad Atene incontro Sylvain ed Erica, che si sono da poco trasferiti in città. Decidiamo di andare insieme a Kalymnos, dove mi fermerò tre giorni per riposare le gambe che ormai sembrano diventate di pietra. Anche il corpo ha perso la sua tradizionale verticalità e tre giorni non saranno sufficienti a restituirgliela. È questo il motivo per cui sono giunto fino a Kalymnos? Probabilmente no. Parto, determinato, felice di rimettermi in marcia, desideroso di sentire il sollievo dall’alto della mia sella.
Ma ho troppa foga, la mente troppo distratta dalle sensazioni che Kalymnos evoca, al punto che sento a malapena la pioggia. Ed ecco, improvvisa, la caduta! Mi rialzo e passo in rassegna il mio corpo e la bicicletta. O meglio, prima controllo la bici e poi il corpo, perché ho la sensazione che il secondo si riprenderà: sono più preoccupato di essere costretto a interrompere il mio viaggio in caso il mezzo sia fuori uso. Ma è tutto a posto: solo qualche graffio a monito dell’accaduto.
Raggiungo Rodi e Fethiye in barca, per affrontare il primo giorno in Turchia. In questa pedalata è già condensato quello che mi aspetterà per i successivi 17 giorni: strade sterrate, fuori dalla modernità, ma dense di civiltà. Kangal enormi che mi fanno andare nel panico e che mi costringono a imparare qualche parola in turco, l’essenziale per segnalare ai pastori la mia presenza e ribadire che tengo molto ai miei polpacci. Salite pazzesche, utili a ricordarmi quanto non ci sia niente di più bello che trovare il giusto ritmo per superarle.
Arrivo a Demre dove, con immenso piacere, visito un importante sito archeologico e la chiesa di Saint Nicolas, rigorosamente da solo e al tramonto, come raccomandato dai diari di viaggio del XIX secolo. Per entrambi bisogna pagare il biglietto di ingresso, ma, considerato il ritmo di svalutazione della lira turca, non è poi molto.
Ad Antalya trovo un condensato del meglio e peggio della città, con il centro storico che ostinatamente si oppone all’avanzata del turismo di massa e dei suoi centri di assedio: gli hotel per tour-operator. Mi godo questo momento di civiltà, prima di passare al selvaggio ecosistema della steppa. Tra due giorni darò il via alla traversata della catena delle montagne Tauri.
Il 6 maggio la partenza è di prima mattina: mi aspettano una lunga giornata e quasi 4.000 metri di dislivello. La notte è andata bene, anche se sono rimasto sveglio fino a tardi a parlare con la polizia locale per poter allestire il mio bivacco. La salita si rivela fin da subito faticosa, mentre la chorba del ristorante di Gondogmus è decisamente migliore. Ad un certo punto la strada asfaltata è interrotta da una svolta a sinistra, che rivela un sentiero incorniciato dai frutteti. Controllo la tratta sul GPS. La discesa dura poco, lasciando spazio quasi subito alla salita, prima al riparo dal vento e poi completamente esposta. La salita continua anche una volta superato l’ultimo villaggio.
C’è un bivio e qui il sentiero a sinistra suggerisce l’inizio di una discesa, ma il GPS segna inesorabile la destra. Il vento contrario e la pendenza del 17% mi hanno costretto ad appoggiare il piede a terra. Se fino a questo momento il paesaggio si è rivelato grandioso, ora la forza del vento lo rende sublime.
Arrivo al passo che in realtà conduce a un altopiano. Qui mi accoglie una distesa di neve a perdita d’occhio. Che fare a questo punto? Procedere o tornare sui miei passi? La bicicletta non va sulla neve, ma un viaggio del genere non concede inversioni di marcia, quindi spingo la bici sulla neve per un’ora, seguendo la linea dei pali del telefono che sporgono dall’immensità bianca. Qua e là spunta un pezzo di strada e, ancora una volta, presso uno di quei bivi dove vorrei che il GPS indicasse una determinata direzione, vengo indirizzato sull’altra.
Sono le 17, mi trovo a 2.200 metri di altitudine, il vento soffia, tutto intorno a me è bianco, fatta eccezione per un borgo alpino. Quando il paesaggio si oscura, decido che è arrivato il momento di montare la tenda per ripararmi. Mi restano cinque fette di pan di zenzero, un pezzo di pane e due manciate di pistacchi.
Mi alzo presto e riparto, continuando a spingere la bicicletta. Il GPS indica che sono ancora a un’altitudine compresa tra i 2.000 e i 2.200 metri e che manca poco, ma non ci sono discese in vista. Nel frattempo raggiungo i 2.400 metri, a indicazione che da qui in avanti la strada dovrebbe iniziare a scendere. In lontananza si scorgono delle frazioni alpine, a riprova del fatto che in altri momenti dell’anno qualcuno vive in questa zona.
Finalmente, una strada spunta all’orizzonte, ma il suo colore ocra mi insospettisce. Potrei percorrerla in sella? Certo che no, alla neve segue il fango, che è ben peggiore perché blocca le ruote rendendo la bicicletta difficile da spingere. Dopo altre due ore di cammino nel fango, in lontananza scorgo un gruppo di pastori. Mi avvicino goffamente e il loro sguardo dice tutto. Mi indicano il sentiero che ho appena percorso e, delle loro parole, riesco a capirne solo una: “kar”,“neve”. Dovrò leggere l’omonimo romanzo di Pamuk.
Arrivo a Bozkir, dove mi accoglie una camera per non fumatori, senza riscaldamento, ma non potrei chiedere di meglio. Riparto per Konya, seguita da Capadocia, dove ogni guida consiglia di passare almeno una settimana. Io però ci rimango solo due giorni: ho bisogno di pedalare. Un bisogno che non ha niente a che fare con un obbligo: è un’urgenza più profonda, inarrestabile. Non c’è fretta, se non il desiderio di tornare a far parte del paesaggio.
Dopo una fermata a Kayseri per riparare il deragliatore, percorro 200 km tutti d’un fiato fino a Sivas. Lungo le corsie delle principali strade turche succede di tutto: passano veicoli di ogni tipo, si organizzano picnic e la gente si riposa.
Supero il passo di Geminbeli da 2.000 metri, dove non c’è traccia di neve. Ho ancora due giorni prima di arrivare a Bayburt: sono due tappe ragionevoli, ma sarà necessario aumentare il passo, perché il maltempo sta per raggiungere la catena di Pont. Percorro 175 chilometri tra i 1.300 e i 1.700 metri di altitudine , prima di arrivare in questa città alla fine del mondo, stanco per la giornata di vento contrario.
Il 18 maggio parto per la D915, descritta dalle guide motociclistiche come la “strada della morte”. 20 chilometri dopo la partenza vengo fermato da un veicolo della Turkish Telecom: non si passa. Mi indicano un percorso alternativo che, sebbene non sia altrettanto sensazionale, andrà bene. Nel tornare indietro incrocio una coppia di motociclisti tedeschi e gli consiglio di fare retromarcia: mi augurano buon viaggio e mi danno appuntamento per una birra a Tbilisi.
Nel frattempo sono arrivato nei pressi del mar Nero. Attraverso un altro passo a 2.600 metri, dove trovo di nuovo la neve: la temo, ma passo comunque oltre. Per fortuna la strada è libera e mi aspettano 40 chilometri di discesa, dalle alte vette alle piantagioni di tè. Ormai mi trovo lungo le coste del Mar Nero. Il cielo è uggioso, ma per il momento mi risparmia un’altra doccia d’acqua.
Solo due o tre giorni mi separano dalla Georgia. Saluto Rize sotto una pioggia battente e, sebbene una sosta nella città di Erdogan non fosse nei miei piani, non mi resta altra scelta che fermarmi. Ho troppo freddo. Durante l’ultimo giorno in Turchia viaggio a cavallo tra la trafficata strada costiera e le piantagioni di tè, in mezzo alle quali mi perdo, convinto di aver individuato un percorso alternativo non segnalato dal GPS.
Qui però le strade non contemplano tali perlustrazioni: mi tocca tornare sulla via principale dove le targhe dei camion ammassati mi schiudono nuove fantasie. In questo punto passa la Via della Seta e il 20 maggio varco il confine turco-georgiano.
La mia prima impressione della Georgia è che qui gli autisti sono più imprevedibili che mai, quindi bisogna fare attenzione. Fortunatamente il giorno successivo mi lascio alle spalle le strade principali per dirigermi verso Akhatsikhe, risalendo la valle dell’Adjaris lungo una strada in costruzione, a volte sterrata, a volte dissestata. È una tappa lunga, fangosa, maestosa, dalle rive del Mar Nero a 2.000 metri di quota, dove trovo nuovamente la neve. Alle 18 raggiungo il passo Goderdzi e qui supero una stazione sciistica chiusa, domandandomi se la sua chiusura sia stagionale o definitiva. A due curve di distanza c’è un hotel nuovissimo. A questo punto lascio o raddoppio, perché non ho più nulla da mangiare. L’arrivo coronato da trota, birra e khatchapouri è a dir poco glorioso!
Sono a due giorni da Tblisi. Scendo da Borjomi e imbocco la strada per Gori sotto un cielo sempre più minaccioso. La pioggia scrosciante scoppia giusto in tempo per celebrare la mia prima foratura, dopo aver racimolato un passaggio in autostrada.
Il 24 maggio arrivo a Tbilisi, 35 giorni dopo la mia partenza da Lione, per un totale di 29 giorni e 3.500 chilometri percorsi in bicicletta. Un mezzo fedele, veloce e leggero, che ha sostenuto egregiamente i dieci chili di bagaglio lungo strade dissestate.
Un’ode al titanio. Andrà veloce e lontano, questo è certo.
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